Thursday, 14 May 2009

Reportage - Il Vino di Noè Montpeliano Restaurant

Sul suo tronco abitano merli e scoiattoli, la sua base è coperta di edera e disseminata di violette. Le sue favolose radici affondano nella pancia dell’Irpinia per dieci metri almeno, in un prato coperto di fiori blu e papaveri. La pelle è quella rugosa e rinsecchita di un vecchio Navajo; il busto s’attorciglia a un palo di castagno e forma una scultura di ottanta centimetri di circonferenza. Poi, a due metri e mezzo di quota, il coriaceo gomitolo si dipana, diventa quattro braccia nodose che si piegano a novanta gradi, come capestri, e partono verso l’orizzonte disegnando una grande rosa dei venti. Quattro branche aggrappate a fili di ferro, da cui pendono piccole protuberanze legnose appena potate e pronte dar frutto. Per le trecentesima volta dopo trecento anni. Ne ha di vita in corpo il patriarca di Taurasi, la vite in servizio attivo forse più vecchia del pianeta, nata prima di Napoleone e della scoperta dell’Australia. Con alcuni “cugini” più piccoli della stessa zona, è anche l’ultimo rappresentante mondiale di una tribù antichissima, dal nome misterioso che viene da Oriente: sìrica.

Il capolinea di tremila anni di cultura, genetica, gusto e migrazioni nella geografia eurasiatica fino al grande approdo chiamato Italia. Un “rosso” mitologico della Magna Grecia, arrivato sulla costa jonica da chissà quando e da chissà dove, forse dalle terre di Noè attraverso la Dalmazia, portato in Italia da chissà quali mercanti — parrebbe su navi elleniche degli iblei o degli intraprendenti focesi — e poi risalito fino alla terre fertili della Campania. Lo assedia un frastuono di cinciallegre e calabroni, un brulicare di vita scomparso nel Nord dei pesticidi, e tu ti chiedi dove stia il mistero di tanta forza.

Il grande vecchio di Taurasi è sopravvissuto a tutto. Alla rivoluzione del clima, all’abbandono delle campagne e al dilagare della boscaglia. Alla fillossera che un secolo fa ha annientato i vitigni europei. Alla barbarie delle potature industriali che ha amputato e ucciso le piante più adulte. Alla tirannia degli enologi che ha prodotto vini perfetti e senz’anima. Testardo, ha tenuto duro contro tutto. La dittatura della genetica, che ha umiliato la geografia e il territorio; le monocolture che hanno portato un patrimonio autoctono inestimabile a un passo dall’estinzione; le infezioni epidemiche partite dai vivai industriali. Soprattutto contro il dilagare dei chardonnay e dei cabernet, che ha evirato la biodiversità italiana e cacciato le “stirpi” più rare in riserve indiane dimenticate. Irpinia, colline senza fine, fili di fumo che segnano qua e là i roghi dei giunchi della potatura. Abbaiare di cani, pale eoliche a distanza, sorgenti; il sole affoga nella bruma verso il Vesuvio e le prime luci si accendono sui villaggi di crinale. È qui che trovi il vecchio brigante e i suoi fratelli, nascosti tra le smagliature del terremoto, in un terreno poroso dove il piede affonda senza sporcarsi, mimetizzati tra viti di agliànico contorte come ulivi, protetti da querce, cachi, peri, ciliegi, salici, noci, mandorli, fichi e noccioli, in un piccolo podere sulla cima di un colle, sopra l’antica via Appia-Traiana. Qui, non in mezzo ai vitigni-reggimenti, alle file infinite di piante-reclute schierate su terre nude e senza fiori, carne da cannone da sacrificare in fretta sul campo del mercato. L’hanno trovato quasi per caso, qualche anno fa.

C’era un’équipe che stava mappando le vigne dimenticate d’Italia. La guidava il trentino Attilio Scienza, professore di viticoltura all’università di Milano, per conto della casa vinicola “Feudi di San Gregorio”. La zona prometteva bene: terre fertili, cariche di vigoria, e una minuziosa topografia di vitigni autoctoni dai nomi arcani: fiano, agliànico, sciascinoso, mantonico, piedirosso, serpico e falanghina. Stavano lì, a marcare il territorio, a raccontare storie antiche come la biblioteca di Alessandria. Ma quando arrivarono al podere del signor Sabatino Di Jorio, gli esploratori capirono presto di aver di fronte qualcosa di inestimabile. Una vigna secolare, con in mezzo tre piante ancora più secolari. Roba mai vista prima. I vecchi mormorarono un nome, sìrica, e subito iniziarono scoperte mirabolanti. Si vendemmiò, e dai bicchieri emerse a sorpresa un gusto morbido, dolce, che si credeva estinto. Si esplorò il dna della pianta; si videro le affinità con l’agliànico, il lagrein e il teròldego; si appurò la presenza di componenti antiossidanti — e quindi anti-tumorali — sette volte più forti che in qualsiasi altro rosso. Si tagliarono dei tralci e si riprodusse la pianta attraverso barbatelle nuove da cui sono nati da poco i figli del grande vecchio.

Solo alla fine ci si accorse di avere acchiappato per la coda un testimone del tempo, destinato alla cancellazione e all’oblio. Era come avere ritrovato gli ulivi del Getsèmani. Ma non era solo la biologia; era la storia e la geografia che si svelavano. La vite parlava come un libro aperto. Diceva di essere arrivata da un porto della Jonio chiamato Siri e di avere preso da quello il suo nome. Svelava tracce indelebili del suo passaggio sulla via Appia-Traiana, la marcava come una pietra miliare dopo un itinerario serpentiforme alto sulla valle del Busento, Potenza e la Lucania profonda. Raccontava favolosi itinerari centro-asiatici e illirici. Illuminava angoli sconosciuti della Magna Grecia. Diceva che la struttura a spalliera della vite era quella “a tennecchie” che i Sanniti avevano imparato dagli Etruschi di Capua, e diceva pure che quello sposalizio culturale fra uva greca e tecniche italiote poteva essere la spia di un innesto fra la pianta venuta da Oriente e viti selvatiche ritenute sacre in terra etrusca. La sìrica diceva soprattutto quello che la modernità omologante tendeva a dimenticare, e cioè che l’Italia, piantata in mezzo al Mediterraneo, era stata un favoloso laboratorio di contaminazione e di sopravvivenza delle specie.

Racconta Attilio Scienza: «In zone antiche e promiscue, ai margini delle mode, si era salvato un arcipelago di biodiversità che non aveva eguali nel mondo», un patrimonio vitale che andava mappato in fretta e salvato dalla distruzione come gli animali dell’Arca dal diluvio. Centinaia di vitigni rari dimenticati in terre meno “nobili” come la Calabria interna, l’Etna, la Sardegna remota, il Molise o il Mantovano. Lontano dalle Langhe o dalle terre di Montalcino. Un po’ come il sagrantino di Montefalco, che stava letteralmente scomparendo e oggi, dopo un salvataggio acrobatico, ha raggiunto i vertici della qualità. Ma il patriarca irpino svelava anche il segreto della sua vecchiezza. Perché la sìrica aveva tenuto duro lassù mentre due chilometri in là altre piante erano state spazzate via dagli acàridi della fillossera? Lentamente, i conti tornavano. Dipendeva da quel terreno soffice, paludoso e vulcanico, dalla grana delle sabbie, abrasiva e ostica per gli insetti sterminatori. Si vide che un po’ tutta la Campania, grazie ai vulcani, aveva resistito alla pestilenza più a lungo di altre regioni e fra le due guerre aveva esportato uva in mezza Europa, dove le vigne erano in ginocchio. Anni di fertilità irripetibile, da cento quintali all’ettaro, cui seguì, nel dopoguerra, la quasi scomparsa della regione dal mercato del doc. Un’eclissi che oggi si rivela un vantaggio e consente di affrontare la modernità senza avere liquidato la manualità contadina. «È quasi soltanto a Sud — raccontano Pierpaolo Sirch e Marco Simonit, esperti friulani che apprezzano le terre tra Ofanto e Volturno — che la tecnica di potatura è rimasta corretta». Lo vedi anche dagli alberi sulle strade, o dai frutteti: nessuno, qui, si sogna di amputare rami più vecchi di due anni, quelli che faticano a cicatrizzare e spesso restano con le ferite aperte alle intemperie, ai funghi e ai parassiti.

L’Italia, fa notare Marco Simonit, è una terra di vigne inestimabili dove l’operazione fondamentale — la potatura — è spesso affidata a personale avventizio e incompetente. «Si tranciano rami vecchi con la motosega, si lavora solo per far produrre, anche se questo va a scapito della longevità del vigneto. Il risultato è che la Francia, la Spagna o la Grecia lavorano, in media, su vigne molto più vecchie di quanto non faccia l’Italia, che pure è il Paese col patrimonio storico più straordinario del mondo. Da noi viti più vecchie di quarant’anni sono una rarità. Tutti, specie nel Centro-Nord, pensano ai concimi, al passaggio dei trattori, alla corretta palificazione, ai fili di sostegno, all’imbottigliamento. Il superfluo trionfa. Pochi pensano all’essenziale, costruire una longevità. Il bello è che sono convinti di saper potare e non accettano lezioni. Se poi chiedi come mai le loro viti crepano così giovani, alzano le spalle, danno la colpa al clima o ai fertilizzanti…». Ecco, la sìrica è anche questo: un monumento alla buona manutenzione, il frutto della cura di generazioni, una dedizione fatta di tempo, pazienza, attese, minuzia. Una sapienza mediterranea che ha lasciato testimonianze uniche.

A Pantelleria, dove la coltivazione ad alberello ha preservato un patrimonio genetico che nessuna vigna clonata potrà mai costruire. In Francia, dove si fanno le feste della potatura per tramandare la sapienza dei vecchi, e dove nelle etichette si avverte il bevitore non solo dell’invecchiamento in bottiglia, ma anche della vecchiezza della pianta. O nel Priorato, sopra Barcellona, dove vigne centenarie crescono in campo aperto, rugose e contorte come le anime dannate nelle stampe di Gustavo Doré sulla Commediadell’Alighieri. Antonio Minichiello, della “Feudi di San Gregorio”, mi accompagna in mezzo a piante venerabili, davanti alle quali sarebbe giusto far prostrare politici, scolaresche, manager, finanzieri d’assalto, tutti a chiedere scusa di cinquant’anni di sprechi e sviluppo cannibalico. Guardi la sìrica e capisci: gli alberi da frutto che la circondano hanno vaccinato il terreno, fornito una formidabile difesa contro le pestilenze da monocoltura, protetto i vitigni dalle contaminazioni globali. E poiché le piante da frutto, per millenni, non sono mai state solo cibo ma anche rito e comunione col sacro, ponte tra cielo e terra madre, ecco che la testarda longevità dei patriarchi irpini nasce anche dall’antico rispetto per la vecchiaia, vista come serbatoio di memoria vitale.

È una superstizione che la moderna biologia conferma: nelle piante secolari si nasconde davvero la banca-dati della vita, un’esperienza in adattamento ambientale, un codice d’accesso alla salvezza genetica che in tempi di disastro climatico diventa indispensabile all’umanità. «È proprio in questa vecchiezza la forza dei vitigni italiani, non nel giovanilismo sconsiderato che dilaga», s’accalora il professor Scienza. «È su questo che siamo unici al mondo, è su questo che diventiamo imbattibili rispetto ai vini sudafricani, cileni o californiani, prodotti di piantagioni recenti». Non vi è nulla di simile in Europa. Certo, in Alto Adige, in Slovenia o in Ungheria hai singoli esemplari anche più vecchi, ma sono viti protette, conservate in chiostri o nei cortili delle case, monumenti “in vitro”, isolati dalle vigne. Qui hai esemplari in campo aperto, un terra promessa inesplorata che si svela. Antonio Minichiello la sente come un rabdomante, è certo che se si potessero esplorare tutti i poderi verrebbero fuori altre sorprese. «Ho trovato un piedirosso ad albero, enorme… Si espandeva in orizzontale fino a formare un ombrello di centocinquanta metri di circonferenza, non bastavano i pali a tenerlo su. Ora lo hanno accorciato… non abbiamo ancora potuto valutarne l’età». Si commuove, Antonio, per questa sua terra grassa e mai stanca, serpeggiante di fontanili, dove tutto ha sapore, dalle melanzane alle conserve fatte in casa. Tramonta, l’ultima luce viola accarezza piante di broccoli, patate, aglio, finocchio e piselli, cresciute spontaneamente tra le vigne della leggenda. Ce n’è di strada da fare per scoprire il mistero italico di queste terre fertili e ondulate, inquiete, sismiche, punteggiate di luci fin sulle cime dei monti, le terre di Pitagora e Zenone, mitologico approdo dei Greci e fantastico laboratorio di contaminazione fra popoli italici, longobardi, etruschi, arabi, slavi, albanesi, normanni. Culture, sapienze manuali inestimabili che è possibile leggere sui rami di ogni albero. «Non mi importano i master post-laurea — brontola Simonit — qui c’è da ricostruire in fretta una manualità perduta per salvare un patrimonio. Persino la Turchia e la Georgia hanno scuole di potatura. L’Italia no… dobbiamo arrivarci in fretta. A che serve il biodinamico se manca il buon senso?». Ermete Realacci, presidente di Symbola, fondazione per le qualità italiane, è convinto di essere alla vigilia di una seconda rivoluzione dell’enologia, dopo quella salutare esplosa al termine dello scandalo-metanolo. È la rivoluzione che riporta in luce l’anima delle viti. «Il futuro del vino non sta nella perfezione — si infiamma Sirch — ma nel suo contrario! La perfezione fa emergere l’enologo. L’imperfezione svela l’anima del territorio, mette in moto la memoria, accende la fantasia, svela il genius loci. È come un amico, che lo ami quasi più per i suoi difetti che per le sue virtù». L’antropologo Lévy Strauss nel suo memorabile Il cotto e il crudo, ricorda che ciò che è buono «da mangiare» è pure buono «da pensare»: cioè ti alimenta culturalmente. Bere nutre anche l’anima. Basta dunque con lo schioccare di palati saccenti, con le bottiglie blasonate in défilée come altezzose modelle. «L’eccesso di tecnica ha annacquato l’identità, mistificato i vini, imbalsamato il gusto, impoverito la memoria del palato», protesta Attilio Scienza. La bontà di un vino non discende da un’autopsia o da una graduatoria a punti, ma da un insieme. Da una personalità, fatta anche di piccoli difetti. Se bere riesce a comunicare tutto questo, allora eccoci vicini all’anima della pianta, dunque al segreto della vita. È così che il vino assolve fino in fondo il suo compito. Ti riporta a Dio, come ai tempi di Noè.
Tratto da: "La Domenica" di Repubblica 1/4/2007

Montpeliano Restaurant
13 Montpelier street
Knightsbridge
London, SW7 1ET, UK
www.montpelianorestaurant.com
info@montpelianorestaurant
T. +44(0)207 5890032

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